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La guerra al grasso non funziona, proviamo ad amarci

Articolo a cura di Paola Lazzarini

È passato ormai più di un anno da quando la supermodella curvy Ashley Graham ha posato per  il numero dedicato ai costumi da bagno della rivista Sports Illustrated, considerata la consacrazione a sex symbol per le modelle di tutto il mondo, ed è di questi giorni l’uscita del suo libro “A new model” nel quale porta avanti il suo impegno nell’empowering femminile e nel superamento degli stereotipi di bellezza.

La Graham è solo la punta di un iceberg che, negli Stati Uniti, rappresenta ormai un vasto movimento di opinione, ma soprattutto un grosso mercato e, non a caso, la stessa modella firma ormai numerose collezioni di abiti e underwear, mentre cresce a ritmi costanti il numero di fashion blogger curvy inseguite dai brand della moda per posare con i propri abiti taglie forti.

Al fenomeno della moda declinata per taglie fuori standard si interessano ormai da qualche anno anche in Italia gli studiosi dei processi culturali: una interessante raccolta di saggi sull’argomento si trova nel volume del 2014 “Overfashion. Nuove prospettive per la moda nella società che ingrassa” a cura di Marita Canina e Paolo Volontè, ma è proprio di pochi giorni fa il convegno del dipartimento di scienze per la qualità della vita di Rimini (Università di Bologna) sul tema della taglie, nel corso del quale il Professor Marco Pedroni associato di sociologia presso la facoltà di giurisprudenza di Ecampus ha parlato delle fashion blogger curvy come soggetto significativo nella ridefinizione dell’immaginario del fashion. Le fashion blogger curvy sono una realtà numericamente consistente sia negli USA che, ormai, qui in Italia, contano milioni di followers sui social e in particolare su Instagram e creano opinione, oltre a indirizzare all’acquisto.

Seguendo sui social media è però evidente la discrasia tra come questo fenomeno viene accolto negli USA e in Italia: mentre negli Stati Uniti è guardato con interesse, senz’altro dal mercato, ma anche dalla società e considerato una strategia positiva per il superamento di una visione univoca della bellezza e in proiezione di contrasto al bullismo, quando in Italia compaiono queste modelle sulle riviste si verifica immediatamente una reazione di profondo fastidio, quasi disgusto, e si accusano riviste e indossatrici di promuovere l’obesità. Credo si tratti dell’ennesima conferma che ci troviamo alla periferia dell’impero anche per conoscenza dei fenomeni e linguaggio con cui affrontarli.

L’obesità è un serio problema di salute pubblica e come tale va affrontato promuovendo la cultura del mangiare sano e del movimento fisico, ma – anche volendo ignorare l’arbitrarietà con la quale sono stati definiti gli indici di massa corporea e l’idea di “normalità” astratta che portano avanti – qualunque dietologo potrà confermare che lo stigma sociale, il disprezzo con cui obesi e sovrappeso sono normalmente considerati, non ha mai aiutato nessuno a migliorare la propria condizione, anzi. È evidente come l’atteggiamento colpevolizzante tenda a portare all’isolamento e ad assumere comportamenti fortemente autodistruttivi.  Al contrario vedere le modelle curvy belle, palesemente in pace col proprio corpo, che fanno maratone (come Candice Huffine), vanno in palestra, pubblicizzano abbigliamento sportivo e costumi da bagno, restituisce a chi ha problemi di peso la cittadinanza nei luoghi della salute che chi stigmatizza e deride gli preclude di fatto.

Occorre tenere presente che ciò che meno aiuta nell’ottica di una migliore qualità della vita delle persone è la ipersemplificazione dei problemi fisici: gli esiti di una ricerca pubblicati su PubMed nell’agosto del 2016 riportano che dopo 6 anni dalla importante perdita di peso di 16 partecipanti al programma “the big loser” (si parla di almeno 25 kg), il metabolismo ancora lotta per riportare il corpo al peso precedente, questo ci dice la complessità del fenomeno e di come sia urgente superare l’equazione obesità=pigrizia e sciatteria come normalmente la questione viene liquidata. Se obesità e sovrappeso si affrontano con i sentimenti di una “guerra al grasso” non solo si perde, ma a farne le spese sono le persone più fragili; la costruzione di una positiva visione di sé, al contrario, fa crescere l’amor proprio, l’attenzione alla propria salute e quindi anche al cibo e al movimento. È degli ultimi giorni la notizia del nuovo studio del Rudd Center for Food Policy & Obesity di Yale, che ha messo in luce il ruolo chiave del linguaggio utilizzato dai sanitari che si occupano di problemi ponderali: utilizzare definizioni come “grasso” o “malsanamente obeso” rafforza lo stigma, riduce la motivazione nel perdere peso e addirittura porta a evitare futuri appuntamenti medici. In quest’ottica valorizzare la bellezza al di là del peso significa restituire alle donne, ma non solo a loro, un contatto positivo col proprio corpo che – solo – può portare a mettere in atto comportamenti benefici di miglioramento della propria condizione di salute. Insomma chi sbraita nei commenti sotto le foto delle modelle curvy dicendo che istigano all’obesità dovrebbe rendersi conto che quel genere di commenti, quel modo sprezzante di guardare a chi ha problemi di peso è proprio una delle cause per cui gli obesi non riescono ad uscire dalla propria condizione, una condizione non scelta, ma determinata da molti fattori in gran parte ambientali (non si dimentichi che l’obesità è più diffusa nelle classi meno agiate) e che rappresenta una delle principali cause di bullismo tra gli adolescenti (tra gli studi più recenti: “Emotional Implications of Weight Stigma Across Middle School: The Role of Weight-Based Peer Discrimination” in  Journal of Clinical Child & Adolescent Psychology).

La ragione per cui una persona in sovrappeso dovrebbe perdere peso è la salute: chiunque guardi Ashley Graham, Tara Lynn o Precious Lee non potrà che concordare sulla loro incredibile avvenenza e anche sul loro aspetto sano, benché fuori dei canoni della moda, perché perseguire la salute non significa necessariamente e per tutti arrivare a indossare una taglia 42 e per questo esiste oggi negli USA un interessante movimento che coinvolge anche medici e psichiatri chiamato “Health at every size” che indaga e promuove una vita in salute anche per chi veste taglie fuori standard, affermando che il miglior modo per migliorare la salute e il benessere è smettere di considerare il proprio corpo un nemico, porre fine alla deprivazione e alla demonizzazione alimentare e, invece, reindirizzare le energie per apprezzarsi, muoversi  e  nutrirsi bene.

La moda oggi può diventare un elemento di integrazione, di superamento dello stigma e di elaborazione di un’idea di bellezza più articolata e varia e a chi pensa che sarà un incentivo a impigrirsi vorrei ricordare l’esito catastrofico di decenni di disapprovazione, scherno e diete drastiche: le percentuali di persone obese e in sovrappeso sono in continua crescita! Un approccio più positivo alle diverse forme del corpo, invece, se anche non migliorasse la situazione a livello di salute pubblica (tutto da dimostrare), almeno ci permetterà di dire che abbiamo costruito una società più umana e rispettosa per tutti.