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Genitori, figli e cibo: questione di amore

Rubrica a della Dott.sa Paola Cipriano

Il parto rappresenta solo una delle tante nascite a cui andrà incontro un essere umano.

Fanno bene gli orientali: considerano la data del concepimento come il giorno del compleanno. Già, perché è proprio da quel momento che iniziamo ad esistere e ad intessere le maglie di quella relazione unica e speciale con nostra madre.

All’interno della pancia la condizione è omeostatica: tutto è in equilibrio. I suoni e le luci sono attutiti, la temperatura è costante, non esiste la percezione del vuoto poiché il corpo del bambino è costantemente contenuto e avvolto dal liquido amniotico e dalla placenta; non esiste la percezione di fame o di sete poiché il cordone ombelicale garantisce l’apporto delle sostanze nutritive.

E’ un altro corpo che ci mantiene in vita e ci nutre. Non solo fisicamente.

Gli studi hanno dimostrato quante sono le competente di un feto e quanto ricca ed articolata sia la comunicazione che si crea con la madre, ancor prima di venire alla luce.

Il parto è la prima esperienza di separazione.

In un attimo (si fa per dire) si perde tutto. La stabilità, la condizione di perfetto equilibrio, la garanzia della presenza dell’altro. Il neonato incontra la luce, i rumori, una temperatura diversa, la fatica del respirare da solo e soprattutto l’assenza di contenimento fisico. Intorno alla sua pelle non c’è più la continua stimolazione del liquido che garantiva quel sentirsi tenuto.

Ora è solo. Certo, ci sarà la mamma e tutti quelli che le stanno intorno ma lui, per la prima volta, sperimenta quella condizione umana che ci spinge ad attivarci. E se lasciato libero lo fa.

Appena nato un bambino è in grado di raggiungere il seno materno, spingendosi con i piedini, e attaccarsi al capezzolo. Non lo fa per fame, lo fa per soddisfare il bisogno fondamentale di rassicurazione. Ha bisogno di essere collegato ad un altro corpo per sopravvivere. Come non comprenderlo? E’ stato così per 9 lunghissimi mesi. Lo fa perché vuole recuperare quella condizione che tanto lo rassicurava, quel paradiso perduto. Il seno materno in quel momento, e per diverso tempo, sarà la soluzione. Sarà la risposta, il porto sicuro. E’ in questa relazione nutritiva che nasciamo per la seconda volta.

Nella pratica del soddisfacimento di un bisogno fisiologico prende vita, dentro di noi, il nucleo profondo della nostra consapevolezza. La continua esperienza della poppata, caratterizzata da una sensazione di fusione e poi di separazione (il termine della poppata), porterà il bambino alla consapevolezza di essere separato dalla mamma: è come se iniziasse a dirsi “io sono io e lei è lei”.

Appena nato il piccolo non ha percezione del suo corpo come separato dal resto del mondo; è come se fossero un tutt’uno. Solo il tempo, delle buone esperienze di contatto e di relazione gli permetteranno di accedere a questa consapevolezza.

La presenza a noi stessi comincia, quindi, all’interno di una relazione nutritiva: per questo motivo il cibo non sarà mai solo cibo.

L’allattamento non soddisfa solo la fame fisica ma anche il bisogno di amore: mentre si allatta si donano anche carezze, parole dolci, vicinanza emotiva.

Agli inizi del novecento il famoso psicologo René Spitz dimostrò quanto l’assenza di contatto fisico e di affetto, nonostante venisse garantito il soddisfacimento dei bisogni primari di fame e sete, portava alla morte molti bambini degli orfanotrofi dell’est Europa. Si lasciavano morire per mancanza di amore.

Cibo e amore rimarranno sempre intrecciati: lo sappiamo anche noi adulti. Nel mio studio, sono molte le persone che, tra i migliori ricordi dell’infanzia, mi raccontano episodi legati al cibo:

“Mia nonna era così amorevole con me. Erano intensi e belli i momenti in cui preparavamo i ravioli insieme.”

“La mia infanzia ha il sapore della ciambella calda che faceva mia madre per colazione”

Il cibo è convivialità, un mezzo che crea legame. Un modo per stare insieme. Non a caso molti di noi amano pranzare con degli amici.

Nella relazione con il cibo esprimiamo molto di noi stessi e i bambini, proprio attraverso il comportamento alimentare, possono esprimere un disagio emotivo.

L’obesità infantile, in Italia, ha raggiunto livelli allarmanti anche se la percezione popolare non sembra cogliere la gravità di questa problematica.

A volte il pregiudizio del “Se mangia va tutto bene. Se mangia tanto va ancora meglio” esercita ancora una grossa influenza.

Sul versante opposto, poi, ci bambini che non mangiano. Le bizzarrie alimentari, la selettività o il rifiuto.

La realtà è che quando un bambino mangia troppo o troppo poco non è mai il cibo il problema. Mai.

A noi adulti spetta l’onere di spostare il focus e cambiare prospettiva.

In un disagio che coinvolge il rapporto con il cibo i bambini CHIEDONO sempre qualcosa. La nostra attenzione non dovrebbe focalizzarsi sul cibo, la quantità, le strategie per farlo mangiare di più o di meno. La questione è altrove: dovremmo chiederci “Cosa mi sta chiedendo mio figlio? Quale è la domanda che sta al posto di quel suo comportamento particolare?”

E’ vero che ogni caso è a sé, la storia di ogni famiglia è unica e la risposta va trovata proprio all’interno di quella specificità però dei punti fermi li abbiamo.

Può aiutare far riferimento ad alcune questioni che la psicologia ha messo in luce.

Ad esempio, è utile sapere che i bambini pongono sempre domande di presenza.

Ci chiedono di esserci, di essere presente nella relazione esattamente nel qui ed ora. Ci chiedono di tenerli sempre presenti nella nostra mente. Di dedicarci a loro, di essere profondamente presenti nella torre lego che stiamo costruendo insieme o nel finto pic nic che stiamo preparando in salotto.

I bambini vogliono sentirsi sentiti. Non possiamo giocare o ascoltare un loro discorso mentre diamo un’occhiata alle mail di lavoro sul telefono o facciamo i calcoli, mentalmente, delle pratiche più complesse che abbiamo abbandonato sulla scrivania dell’ufficio. No, non si può. Con i bambini non vale.

Perché? Perché se ne accorgono, loro sono più bravi di noi nel sentire le emozioni. E più sono piccoli più sono competenti se non fosse altro per l’emisfero destro, quello dell’istinto e delle emozioni appunto, che predomina sull’intero cervello per i primi anni di vita. In questa domanda di presenza è come se chiedessero: “Ma che posto ho esattamente nel tuo cuore? Mi vuoi bene, d’accordo. Ma quanto desideri stare con me? Forse ti piace di più il tuo lavoro.”

I bambini vogliono sentirci appassionati a loro. Nei disagi alimentari spesso c’è questa domanda. Chiaramente un bambino non la porrà in maniera diretta ma lo farà con atteggiamenti che attirano la nostra attenzione. Come a tavola, ad esempio. All’interno di una relazione, nutrirsi di un cibo o rifiutarlo può avere un effetto potente: può significare anche mettere in scacco l’altro, farlo sentire impotente poiché di fronte ad una bocca serrata ben poco si può fare.

Spesso le madri vivono con enorme sofferenza questa difficoltà. Si sentono in colpa, pensano di essere rifiutate, di non essere abbastanza brave. Come se nella loro testa girasse un pensiero: “Se questo figlio non mangia la pasta al forno che ho preparato con grande impegno e affetto qualcosa significherà. Non vado bene io”. A volte questa profonda frustrazione porta le madri ad arrabbiarsi molto proprio perché si sentono rifiutate e così mettono in atto una serie di comportamenti dettati dalla collera e dalla tristezza. Comincia il braccio di ferro con il proprio bambino, una lotta estenuante fatta a tratti di ricatti (“Ok se non mangi non vedrai i cartoni”), suppliche (“Dai amore fallo per me, mangia”), punizioni, inganni.

Una guerra senza vincitori e che lascia tutti esausti.

Il segreto, in realtà, è che il problema non è il cibo. E non è vero nemmeno che vostro figlio vi sta rifiutando come genitore.

Se un bambino non mangia o mangia troppo è perché sta lanciando un messaggio.

La clinica e le famiglie incontrate nella mia professione mi hanno insegnato che spesso c’entrano le aspettative dei genitori. Ciò che vorrebbero per i loro figli. Aspettative che ingombrano la relazione, non lasciano spazio all’altro di essere così com’è.

A meno che non ci siano delle gravi patologie organiche, spesso l’inappetenza di molti bambini è il riflesso dell’intensità dell’ansia genitoriale. Più mamma e papà insistono più il bambino resiste.

O a volte succede la cosa peggiore, rinuncia. Rinuncia a sentire quello che sta provando in quel momento, banalmente il senso di sazietà raggiunto, e si adegua alle aspettative degli altri. E’ come se si allontanasse sempre di più dal centro di sé per far contenti gli altri. Attenzione: non facciamo l’errore di banalizzare. Non sono le solite storie, non sto esagerando. SE da mio figlio mi aspetto un determinato comportamento a tavola (e NON intendo: non si butta il cibo per terra, non si lanciano le palline di mollica nelle orecchie del nonno) è molto probabile che io abbia aspettative anche in altri campi della sua vita. Ad esempio che vada SEMPRE bene a scuola o che impari BENE uno sport che, si sa, lo sport fa bene. Che sia SEMPRE molto educato, gentile.

Un ragazzino a modo, insomma.

Tutto bello, per carità, ma la fregatura è che spesso queste aspettative rischiano di non farmi vedere più davvero mio figlio, tanto sono occupata dal cercare di trovare chi vorrei che fosse.

La realtà è che i nostri figli sono anche antipatici a volte, per nulla docili. A tratti sgangherati, fastidiosi, inopportuni. Insopportabili.

E va bene così.

Vuol dire che non sono il clone di noi stessi, che non stanno sacrificando la loro vita per farci felici. A noi la responsabilità di favorire questa crescita.

A tavola possono cominciare le prime rivoluzioni. Un bimbo duenne può rifiutare tutte le cose verdi solo perché sa che noi ci teniamo tanto che le mangi. E’ programmato geneticamente per separarsi, da un punto di vista psicologico, da noi.

Tenta di affermarsi.

Non prendiamola sul personale, proviamo a vedere quanta vita e quanta forza c’è in quell’insopportabile piccolino.

Evitiamo ricatti emotivi, posizioni rigide, eccessivi addestramenti (tipo premi o punizioni)

Proviamo a fidarci di questo bambino e del suo corpo che SA su di sé.

Nemmeno una mamma, che tanto ama suo figlio, può sapere quanta fame ha.

E deve rinunciare alla pretesa irrealistica di saperlo.

Tanti anni fa una pediatra americana lasciò accedere a cibi rigorosamente sani un gruppo di bambini di un orfanotrofio. Mangiavano quanto volevano e nelle combinazioni più disparate. I bambini vennero seguiti per 6 anni misurando parametri come peso, altezza e quoziente intellettivo. Nessuno manifestò mai nessun tipo di carenza o patologia. Tutti godevano di buona salute. Il corpo è in grado di autoregolarsi. Tutti i corpi, anche quello di un neonato.

Agli adulti spetta il compito di crederci. E di fidarsi.

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 Paola Cipriano, psicologa e psicoterapeuta di Milano. Si occupa di sostegno psicologico, percorsi di psicoterapia individuale per adulti. 

Ha approfondito anche l’area della psicologia perinatale occupandosi di sostegno in gravidanza, nel post parto e alla coppia genitoriale. Il suo modello di riferimento è la psicoterapia ad orientamento psicoanalitico relazionale. Nel suo lavoro rivolge l’attenzione alla Persona considerandola come soggetto responsabile, libero e portatore di risorse e possibilità. Qualcuno scrisse che nessun uomo è un’isola: tenendo valida questa metafora ognuno di noi nasce, cresce e si struttura psicologicamente all’interno di relazioni significative e sempre all’interno di esse esprime il proprio modo di essere e la propria sofferenza.

Potete trovare la Dottoressa Paola Cipriano nel suo sito psicologacipriano.it, compilando questo form per informazioni oppure inviate una mail a: dottoressacipriano@gmail.com